Il racconto della trasfigurazione di Cristo (Mc 9, 2-10; Mt 17, 1-8; Lc 9, 28-36) s’inserisce all’interno di una scansione cronologica precisa: la trasfigurazione di Gesù al settimo giorno, richiama una cifra carica di significati, che non può non evocare Mosè sul monte Sinai, la chiamata del Signore preceduta da sei giorni di attesa, ai quali fa seguito, nel settimo giorno, l’ingresso di Mosè in mezzo alla nube (cf Es 24, 12-18).
Nella narrazione evangelica il computo di sei giorni va considerato dal racconto della professione di fede di Pietro nel quale l’apostolo riconosce Gesù come il Cristo (Mc 8, 29), un brano a cui fa immediatamente seguito il primo dei tre annunci della passione (8, 31-33; 9, 30-32;10, 32-34). All’interno del contesto marciano l’episodio della trasfigurazione conferma la confessione di fede nel Cristo – Pietro rispose: «Tu sei il Cristo» (Mc 8, 29) – e, al tempo stesso, questa fede viene precisata, dalla voce del Padre, nel riconoscimento di Gesù come Figlio di Dio: «Venne una nube che li coprì con la sua ombra e dalla nube uscì una voce: Questi è il Figlio mio, l’amato: ascoltatelo!» (Mc 9, 7). La gloria trascendente che avvolge e trasfigura il Cristo va quindi letta come espressione della sua origine divina.
Nell’abside della Basilica di Sant’Apollinare in Classe, straordinario monumento datato alla metà del VI secolo, il brano evangelico della trasfigurazione del Signore Gesù è il cuore di tutto il ciclo iconografico. Essa è opera superba che proclama, in una sintesi straordinaria, la fede nel Cristo, vero Dio e vero uomo, quella stessa fede che, annunciata da Sant’Apollinare, primo vescovo di Ravenna, era stata minata dalla chiesa ariana di Teoderico.
La scena della trasfigurazione pensata per il catino absidale classense – un’opera innanzitutto teologica oltre che artistica, un’omelia scritta nella potenza delle immagini – appare come il frutto di una riflessione tanto raffinata quanto colta, che affonda le sue radici nella sapienza dell’esegesi patristica.
La trasfigurazione classense oltre ad essere la prima immagine monumentale di questo episodio evangelico – la rappresentazione della trasfigurazione compare tardi ed è comunque rara nella tradizione paleocristiana e bizantina – si configura come un’opera di un’originalità assoluta presentando un’iconografia simbolica e non realista, come si può ammirare ad esempio nel catino absidale del Monastero di Santa Caterina del Sinai, mosaico anch’esso di epoca giustinianea con il quale, necessariamente, va stabilito un confronto.
Se nel mosaico sinaitico il Cristo con Mosè ed Elia e gli apostoli sono raffigurati nella loro realtà terrena, nel catino classense la loro presenza è legata a una raffigurazione simbolica.
Nel mosaico del Sinai la gloria del Cristo è resa presentando il Signore al centro di una mandorla luminosa dalla quale escono fasci di luce, le sue vesti sono bianche e oro; nel mosaico classense il Cristo trasfigurato è simboleggiato dalla croce splendente di perle e gemme, al centro della quale è il volto santo di Cristo incorniciato da perle.
Al Sinai Giacomo e Giovanni sono inginocchiati rispettivamente alla sinistra e alla destra del Cristo, mentre Pietro è bocconi ai suoi piedi, sotto la mandorla luminosa; a Sant’Apollinare in Classe essi sono presenti nel simbolo di tre agnelli: se Pietro è raffigurato alla destra del Cristo/Croce, i due figli di Zebedeo compaiono alla sinistra.
Mosè ed Elia nel mosaico sinaitico sono a figura intera, mentre nella Basilica ravennate compaiono a mezzo busto tra le nubi teofaniche, e sono rispettivamente posti alla destra e alla sinistra del Cristo, in un ordine inverso rispetto a quanto possiamo vedere nella Basilica di Santa Caterina.
Essi «accorsero sul monte per vedere il Cristo promesso» scrive il Crisologo (Sermone 131, 11); essi, che abitano il cielo, rendono presente il mondo ultraterreno: nella trasfigurazione del Cristo cielo e terra si toccano come due mondi compresenti l’uno all’altro, ed esplicitano quella comunione dei santi che, nella liturgia, trova la sua forma più alta essendo cielo e terra uniti nella lode a Dio, dove l’una – la liturgia terrestre – è già partecipazione a quella celeste (cf. Sacrosantum Concilium 2). Mosè ed Elia, inoltre, alludono alla Legge e ai profeti che rendono piena testimonianza al Cristo (cf. Gv 5, 39; Lc 24, 27).
A completare la visione del mosaico classense è la mano/voce del Padre che compare al centro, alla sommità del catino absidale. Gli apostoli, non solo sono i destinatari della visione, ma al tempo stesso partecipano ad una profonda esperienza uditiva, nella quale il Cristo è proclamato dal Padre come l’amato, Colui che è la Parola di vita: «Ascoltatelo!» (Mc 9, 7).
Nel catino absidale ravennate la scena della trasfigurazione si sviluppa in una dimensione orizzontale (il giardino è organizzato e disposto su tre fasce parallele che oltretutto riprendono la disposizione delle dodici pecorelle associate alla figura del Protovescovo); è tuttavia possibile anche una lettura verticale che dalla mano del Padre scende fino a Sant’Apollinare e che ha come culmine assoluto la croce gloriosa del Cristo al centro dell’abside.
Se il brano della trasfigurazione ha in sé, strutturalmente, una sua precisa connotazione trinitaria che si esplicita in maniera evidente e definitiva nella parola amorevole del Padre (cf. Mc 9, 7), la sua rappresentazione iconografia presente nel mosaico classense si determina come espressione di fede ortodossa, antiariana, in Dio Padre, Figlio e Spirito Santo.
La croce gemmata, al centro di un cielo stellato composto di novantanove stelle, è accompagnata da iscrizioni greche e latine, sintesi del credo cristologico: sulla sommità della croce è la parola greca ΙXΘYΣ – pesce – acrostico che si scioglie nell’espressione Gesù Cristo Figlio di Dio Salvatore; alla base della croce, in latino, è l’espressione SALUS MUNDI – salvezza del mondo – che riprende il tema del Cristo salvatore già evocato nell’invocazione greca; alle estremità del lato orizzontale sono le lettere apocalittiche di Α e Ω che rimandano al mistero di Cristo, Signore del tempo e della storia: «Io sono l’Alfa e l’Omega, il Principio e la Fine. A colui che ha sete io darò gratuitamente da bere alla fonte dell’acqua della vita. Chi sarà vincitore erediterà questi beni; io sarò suo Dio ed egli sarà mio figlio» (Ap 21, 6-7).
Questa fede trinitaria è accolta da Sant’Apollinare, posto ai piedi della croce, raffigurato come orante, vestito con gli abiti propri della liturgia; egli accoglie il mistero della trasfigurazione nella celebrazione eucaristica. Accanto a lui è la chiesa di Ravenna, il suo gregge, simbolicamente evocato da dodici pecore, immagine quest’ultima debitrice al pensiero del Crisologo:
«Ecco, è vivo, ecco, [Apollinare] come il buon pastore fa sorveglianza in mezzo al suo gregge» (Sermone 128,3 ).
Giovanni Gardini
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