Le monache Clarisse Cappuccine di Ravenna
«Ha disperso i superbi nei pensieri del loro cuore».
Lc 1, 51
A pochi passi dalla Basilica di San Vitale e dal solenne Mausoleo di Galla Placidia, appena oltre il brusio della città e le strade affollate dai turisti, un alto muro custodisce una terra benedetta, irrorata dalla grazia della preghiera, del silenzio e dell’altissima povertà.
Un semplice portone di legno si apre sulla strada e in tanti lo varcano, l’uno all’insaputa dell’altro, per affidarsi alla preghiera delle monache o fare un’offerta, per ricevere una parola buona o qualcosa da mangiare. Un piccolo atrio accoglie le tante persone che ogni giorno si affacciano alla porta del monastero e a ognuna, da oltre la ruota, risuona una voce che offre lo stesso invito: «Sia lodato Gesù Cristo».
Ci sono soglie che non andrebbero varcate ma, quando ti è concesso, capisci che ti è offerto un grande dono; mi lascio guidare dalle monache e resto in silenzio, in ascolto profondo di quanto mi viene raccontato. Entro nel coro monastico, lo spazio della preghiera comunitaria, dove sono grandi tele dalle quali emergono, in atteggiamenti devoti, santi e sante dell’ordine francescano. «Prima di un recente restauro – mi racconta una monaca – in uno di questi quadri si vedevano ancora le lacerazioni provocate dallo scoppio delle bombe che nella seconda guerra mondiale avevano colpito il monastero; due monache erano morte»; in fondo al grande giardino si trova una lapide, posta dalle consorelle nel vivo ricordo di Madre Maria e Suor Nazarena. Il racconto si fa quanto mai delicato e discreto, perché si stanno tramandando storie di famiglia, come lo sono quelle dei santi raffigurati nelle grandi tele del coro. In una di queste santa Chiara d’Assisi e santa Rosa da Viterbo paiono quasi presentare all’Immacolata santa Caterina de’ Vigri, mistica, poetessa, pittrice e fondatrice del monastero del Corpus Domini a Bologna. Ai suoi piedi sono un libro aperto sul quale è l’iscrizione latina «et gloria eius in te videbitur» – in te, Caterina, si vedrà la gloria di Dio – e uno strumento musicale con la quale la santa aveva accompagnato, cantando, questi profetici versi. Non sono figure distanti quelle delle tre sante, né nel tempo né nello spazio; esse sono semplicemente sorellemaggiori dalle quali prendere ispirazione nel cammino di santità, e credo sia per questo motivo che più volte, negli ambienti del monastero, ritorna la figura di santa Chiara d’Assisi, modello luminosissimo di amore incondizionato a Cristo. Nella parete di fondo del refettorio essa compare come modello di fede mentre stringe tra le mani l’ostensorio con la Santissima Eucaristia. Alla destra e alla sinistra del quadro, all’interno di due semplicissime cornici sono le parole “silenzio” e “ubbidienza”, a suggellare un intenso cammino di perfezione. Non solo qui, ma lungo le pareti del monastero spesso sono scritte a grandi lettere frasi intense, citazioni bibliche, «domus mea domus orationis vocabitur» – la mia casa sarà chiamata casa di preghiera – oppure espressioni tratte dalla tradizione francescana, «pax et bonum», – pace e bene – a continua edificazione delle monache la cui vita si misura costantemente con la parola esigente del Vangelo.
In fondo al luminoso corridoio del pianterreno si staglia, enorme, una croce. Il braccio verticale, mi spiega una monaca, cela al suo interno il meccanismo di un orologio che vedrò al piano superiore, un’opera datata tra XV e XVI secolo. La croce luminosa di Cristo scandisce il tempo terreno di queste donne, tutte protese all’incontro con lo Sposo eterno.
Le monache mi portano in una stanza nella quale sono custodite le reliquie dei santi, un luogo dove il silenzio è profondo. All’interno di una cassa di legno dorato è il corpo di santa Pimenia: «Prima stava in chiesa, sotto un altare – racconta una monaca – ma poi, dalla chiesa è stata tolta perché la sua figura, storicamente, non era ritenuta attendibile»; eppure una di loro porta, tra i nomi assegnati al momento della professione religiosa, quello di questa giovane che la tradizione aveva riconosciuto come martire. Guardo tra gli elenchi dei santi, nel martirologio romano, ed effettivamente il suo nome non c’è; compare solo il nome di San Pimenio, sacerdote e martire, la cui memoria è legata alla catacomba romana di Ponziano.
Ogni ambiente del monastero evoca numerose storie di santità perché il cuore e la mente non si disperdano in pensieri vani o emozioni terrene. Tra le celle delle monache, incastonata come una preziosissima gemma, si trova un piccolo oratorio dedicato a san Francesco dove è conservata una cassa lignea oggi vuota ma che, dal 1819 al 1824, aveva custodito le “ceneri” di San Francesco, le cui spoglie mortali erano state rinvenute nel 1818 in seguito a intense ricerche. Padre Bonaventura Zabberoni, Custode del Sacro Convento di Assisi, ne aveva fatto omaggio alla nipote monaca a Ravenna con il nome di suor Scolastica, al secolo Pelagia Zabberoni. Questo dono dovette risultare particolarmente gradito alle monache che proprio in quegli anni, dopo la dura prova delle soppressioni degli ordini religiosi, avevano appena ripreso la vita di clausura nel loro nuovo monastero di Sant’Apollinare in Veclo. Pochi anni prima, nel 1810, le Clarisse Cappuccine erano state costrette ad andarsene dal loro primitivo monastero ricevendo l’ordine di abbandonare l’abito monastico; se non fosse stato per la tenacia, il coraggio e la fede di suor Teresa Miani probabilmente la comunità si sarebbe irrimediabilmente dispersa. In quell’anno terribile per la storia delle cappuccine, le monache, dunque, dovettero lasciare definitivamente il loro monastero che allora si trovava in via Strigoni, oggi via Cattaneo, una sede alla quale dovevano essere particolarmente legate non solo perché quel luogo aveva segnato il loro ingresso nella vita religiosa, nella clausura, ma anche perché lì era stata la casa della madre di suor Chiara, al secolo Giulia Pascoli, la fondatrice delle Clarisse Cappuccine. In quella dimora riadattata a monastero provvisorio suor Chiara aveva dato origine, insieme ad altre cinque giovani e con il sostegno e la benedizione di sua madre Elisabetta, a una nuova forma di vita che nella Ravenna della fine XVII secolo aveva suscitato grande stupore e ammirazione. La casa di Elisabetta Corsi aveva costituito dunque la prima sede di queste giovani monache, un luogo che successivamente, grazie anche alla provvidenza, divenne un vero e proprio monastero. A seguito delle soppressioni esso fu venduto unitamente alla chiesa e le monache non vi poterono più ritornare; di esso non resta più alcuna traccia, né della chiesa che per volontà di fra Antonio Felice – al secolo Carlo Pascoli, il fratello di suor Chiara che prima di lei aveva abbracciato il carisma francescano – era stata dedicata a San Pier Damiani. Durante questi tumultuosi anni dei primi dell’800 due monache, Suor Teresa Miani e Suor Serafina Fabrani, trovarono dimora nella casa parrocchiale di Sant’Apollinare in Veclo dove nel 1823, grazie alla provvidenza che si servì di generosi benefattori, poterono riprendere la vita di clausura.
Da ultimo le monache mi conducono in chiesa. Ai lati della porta d’ingresso sono i ritratti di suor Chiara Pascoli e di suor Teresa Miani, entrambe figure luminosissime per la storia delle cappuccine di Ravenna; esse paiono accogliere coloro che varcano la soglia della chiesa e vegliare sul cammino di chi, come loro, ha accolto la chiamata a seguire Cristo nella povertà. Prima dei saluti le monache mi ricordano che accanto all’altare maggiore sono custodite le spoglie mortali di suor Chiara e di sua madre Elisabetta; una piccola lapide ne riporta i nomi: «ossa matris clarae fundatricis cappucin rav atq elisabet eius genitricis», ossa della Madre Chiara fondatrice delle cappuccine di Ravenna e di sua madre Elisabetta. «È un modo per sentirla ancora con noi anche fisicamente, ed è uno sprone ad essere sempre fedeli alla nostra vocazione a servizio di Dio e della Chiesa» dicono le monache, i cui occhi limpidi e luminosi testimoniano una bontà radicata nel cuore di Dio.
La porta del monastero si è chiusa alle mie spalle e camminando lungo l’acciottolato di via Pietro Alighieri mi viene da pensare che Ravenna, per secoli, è stata abitata da monaci le cui imponenti abbazie hanno segnato profondamente la storia della città; eppure, di esse, non si avverte più la ricchezza spirituale. Di questa grande tradizione monastica restano solo due piccoli monasteri femminili, quello delle Clarisse Cappuccine e quello delle monache Carmelitane, una manciata di donne che più degli uomini hanno testimoniato e ancora a tutti testimoniano con la loro umile e silenziosa presenza il primato dell’Amore. Mentre mi allontano, affiorano alla mente quelle intense parole che san Paolo aveva rivolto alla comunità di Corinto e mi pare possano riassumere la bellezza di queste monache: «Considerate infatti la vostra chiamata, fratelli: non ci sono fra voi molti sapienti dal punto di vista umano, né molti potenti, né molti nobili. Ma quello che è stolto per il mondo, Dio lo ha scelto per confondere i sapienti; quello che è debole per il mondo, Dio lo ha scelto per confondere i forti; quello che è ignobile e disprezzato per il mondo, quello che è nulla, Dio lo ha scelto per ridurre al nulla le cose che sono, perché nessuno possa vantarsi di fronte a Dio. Grazie a lui voi siete in Cristo Gesù, il quale per noi è diventato sapienza per opera di Dio, giustizia, santificazione e redenzione, perché, come sta scritto, chi si vanta, si vanti nel Signore» (1 Cor 1, 26-31)[1].
Giovanni Gardini
[1] Per un approfondimento sulla vita di Suor Chiara Pascoli e la storia delle monache Clarisse Cappuccine si veda P. Costante da Granaglione O. M. CAP., Suora Chiara Pascoli (1638-1687) fondatrice delle cappuccine in Ravenna, Ravenna 1935, Monastero delle Cappuccine e la bibliografia ivi contenuta; si segnala che il manoscritto citato come Memorie di quanto è succeduto dal principio della Fondazione del Monastero di S. Pier Damiano, fino al 1797 si trova presso l’Archivio di Stato di Ravenna e non più presso l’Istituzione Biblioteca Classense come già indicato. Per una breve storia della Chiesa di Sant’Apollinare in Veclo e sui quadri presenti si veda: G. Gardini, Sant’Apollinare in Veclo, un tesoro da riscopire in RisVeglio Duemila, 22 luglio 2016, p. 2 e bibliografia ivi citata.