Sant’Apollinare in Veclo

Brevi note sulla chiesa di Sant'Apollinare in veclo oggi chiesa delle delle monache clarisse cappuccine.
Sant'Apollinare
Sant'Apollinare, chiesa di Sant'Apollinare in Veclo

Brevi note sulla chiesa delle monache clarisse cappuccine di Ravenna

La chiesa di Sant’Apollinare in Veclo ha una storia antica. E’ un edificio che, stando agli studi, è datato al VII secolo[1]. L’anonimo autore del testo De inventione Corporis S. Apollinaris cita questa chiesa con l’appellativo in veclo per distinguerla dalla chiesa di Sant’Apollinare Nuovo[2].
La stessa argomentazione sarà ripresa da Girolamo Fabri il quale spiega come il nome sia stato: «inventato per distinguerla dalla chiesa di S. Martino in coelo aureo, dopo che questa dal nostro volgo cominciò a chiamarsi Sant’Apollinare Nuovo». Antonio Tarlazzi precisa: «Onde se la denominazione della presente chiesa è veramente più antica di quella di S. Apollinare Nuovo non così può dirsi della fondazione», dato che quest’ultima va datata all’epoca del regno di Teoderico, fine V – primi VI secolo.

Un’importante attestazione di questa chiesa si legge nel Liber Pontificalis Ecclesiae Ravennatis, testo datato al IX secolo, dove, per ben due volte, nelle rispettive Vite degli arcivescovi Reparato e Grazioso, è ricordata: «Reparato (…) fu ordinato vescovo a Ravenna da tre suoi suffraganei, come si usa consacrare il vescovo di Roma. Fu chiamato dal monastero di S. Apollinare, che si trova qui a Ravenna non lontano dalla posterula di Ovilione nel luogo detto “Moneta pubblica”. Reparato fu abate di quel monastero»[3]. Lo stesso è affermato per l’arcivescovo Grazioso: «Fu abate del monastero di S. Apollinare, che è costruito non lontano dalla chiesa della santa Croce redentrice presso la “Moneta vecchia”: di lì venne anche il beatissimo Reparato»[4].

Il Fabri, che la vide prima della sua ricostruzione settecentesca, rammenta come questo piccolo edificio di culto fosse stato menzionato nelle bolle papali di Alessandro III e Urbano IV, pontefici rispettivamente del XII e XIII secolo[5]. La chiesa è menzionata dallo Zirardini che, pur avendo visto sorgere l’edificio settecentesco, ne ricorda esclusivamente le antiche vestigia, mentre il Beltrami scrive circa la nuova fabbrica eretta su progetto del camaldolese Antonio Soratini. Tarlazzi narra le dolorose vicende che, nel 1805, portarono questa piccola chiesa a non essere più parrocchia e alla sua profanazione l’anno seguente. Mons. Mario Mazzotti ne tratta brevemente, celebrandola per la sua antichità, mentre Giuseppe Cortesi, ritiene che essa fosse, in origine, un sacello funerario a pianta cruciforme. Egli esegue alcuni sondaggi «approfittando di alcuni lavori eseguiti nell’ottobre 1974 dalla locale Soprintendenza ai Beni Architettonici» che «si conclusero con un saggio di scavo della parete che separa la chiesetta dalla sua settecentesca sacrestia»[6]. Sempre durante gli scavi Cortesi attesta il ritrovamento di un’abside orientata[7].

Come già è stato accennato, nel 1763 fu interamente ricostruita su progetto del Soratini. Una lapide posta sopra all’ingresso ne ricorda la riedificazione avvenuta sotto l’episcopato dell’arcivescovo Ferdinando Romualdo Guiccioli (1745-1763), essendo rettore don Paolo Miserocchi: «d o. m./ templum hoc/ d. apollinari martyri/ ac primo ravennatium archiepiscopo/ et patrono sacrum/ vetustate collabens/ sedente ferdinando romualdo guicciolo/ ravennae archiepiscopo/ paulus miserocchius rector/ aere proprio/ a fundamentis restituit/ a. r. s. mdcclxiii»[8].

Sull’altare maggiore è posta la grande tela, incorniciata da ariosi stucchi, firmata e datata, in basso a sinistra, da Giovanni Barbiani (1566-1641) – «ioanes barbianus pingebat ravenae 1605»-, dove vi sono raffigurati la Madonna di Loreto con i Santi Apollinare e Francesco[9]. La parte superiore del quadro presenta, come una solenne visione, la Vergine e il Bambino posti sopra il tetto della santa casa trasportata in volo dagli angeli, da Nazaret a Loreto. I due santi occupano la parte inferiore della tela e sono posti in uno spazio aperto: oltre la balaustra sullo sfondo s’intravvede un paesaggio. Il pavimento a scacchiera è presentato come un luogo alto al quale il gradino posto in primo piano invita a salire, mentre dietro ad Apollinare appaiono tre solidi pilastri sui quali pare quasi appoggiarsi la casa della Vergine. Il Santo protovescovo veste un ampio piviale rosso, il colore che la liturgia riserva ai martiri, porta le insegne episcopali di mitra e pastorale; il gesto delle braccia indica la piena accoglienza della santa dimora della Vergine. Sulla destra è il Santo di Assisi il cui sguardo è proteso verso la celeste visione. Francesco veste il saio, regge la croce di Cristo e mostra, nel gesto della mano alzata, il segno delle sacre stimmate.

Ne Il forestiere instruito delle cose notabili della città di Ravenna Beltrami menziona questa tela, un dato questo, che costituisce una importante testimonianza dell’opera di Giovanni Barbiani in questa chiesa[10].

La presenza delle Monache Clarisse Cappuccine nella chiesa di Sant’Apollinare in Veclo risale ai primi anni del XIX secolo quando, in seguito alle soppressioni del 1810, furono costrette a lasciare il loro monastero di Via Strigoni, oggi Via Cattaneo, una sede alla quale dovevano essere particolarmente legate anche affettivamente, dato che il nucleo originario era costituito dalla casa della famiglia di Suor Chiara, al secolo Giulia Pascoli, la fondatrice delle Clarisse Cappuccine a Ravenna. Oggi non resta traccia di questo monastero, né della sua chiesa dedicata a San Pier Damiani[11]. Questo trasferimento segna una fase delicata sia materiale sia spirituale della comunità che porta, per certi aspetti, ad una rifondazione dell’Ordine. Quando le monache furono costrette a lasciare il monastero di via Strigoni – monastero e chiesa furono venduti – molte di loro ritornarono in famiglia; restarono solo Suor Teresa Miani e Suor Serafina Fabrani che trovarono una sistemazione nella casa parrocchiale di S. Apollinare in Veclo. Superata questa difficile fase – che tuttavia non fu l’unica, basti qui accennare alle nuove soppressioni del 1886 – la comunità, ripresa la sua vita e arricchita dal dono di nuove vocazioni, si stabilì definitivamente in questa sede grazie anche all’aiuto di generosi benefattori. Due quadri, posti alla destra e alla sinistra della bussola d’ingresso, presentano i ritratti di Suor Chiara Pascoli e di Suor Teresa Miani, due figure luminose per la storia delle Cappuccine a Ravenna. Le spoglie mortali di Suor Chiara e di sua madre, Elisabetta Corsi, sono custodite all’interno della chiesa, alla destra dell’altare maggiore. Una piccola lapide ne riporta i nomi: «ossa matris clarae fundatricis cappucin rav atq elisabet eius genitricis». In un opuscolo fotocopiato nel quale raccontano la loro storia, le monache scrivono: Suor Chiara «è deposta (…) nel lato sinistro dell’altare maggiore della nostra Chiesa. E’ un modo per sentirla ancora con noi anche fisicamente, ed è uno sprone ad essere sempre fedeli alla nostra vocazione a servizio di Dio e della Chiesa»[12].

Giovanni Gardini

@giovannigardini

 

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[1] Di seguito si riporta una breve bibliografia in merito all’antico edificio che, senza la pretesa di essere esaustiva, vuole essere un utile strumento per l’approfondimento: D. Mauskopf Deliyannis (a cura di), Liber Pontificalis Ecclesiae Ravennatis, in Corpus Christianorum CXCIX, Cambridge 2006, pp. 286; 342; L. A. Muratori, RR. II. SS., Spicilegium ravennatis historiae, Mediolani 1725, Vol I, 2, pp. 538-539; G. Fabri, Le sagre memorie di Ravenna antica, Venezia 1664, pp. 117-118; A. Zirardini, De antiquis sacris ravennae aedificiis, Degli antichi edifizi sacri di Ravenna, pubblicazione in fascicoli mensili, Claudio Zirardini compilatore ed editore, Ravenna 1908-1909, pp. 133-135; F. Beltrami, Il forestiere instruito delle cose notabili della città di Ravenna, Ravenna 1783, pp. 151-152; F. Beltrami, Il forestiere instruito delle cose notabili della città di Ravenna, Ravenna 1791, pp. 110-111; A. Tarlazzi, Memorie Sacre di Ravenna, Ravenna 1852, pp. 134-136; D. Farabulini, Storia della vita e del culto di S. Apollinare, Roma 1874, pp. 265-266; G. Savini, Ravenna. Piante panoramiche, Libreria Antiquaria Tonini, Ravenna 1996, II, 24-24; C. Ricci, Guida di Ravenna, Nicola Zanichelli Editore, Bologna 1923, p. 92 (si vedano anche le edizioni precedenti); M. Mazzotti, Itinerari della sacra visita, chiese di Ravenna scomparse a cura di G. Rabotti, Libreria Antiquaria Tonini, Ravenna 2003, pp. 98-99. 255; M. Mazzotti, Elenco delle Chiese ravennati attraverso i secoli (da un ms della Biblioteca Classense di Ravenna) in Felix Ravenna, Fratelli Lega, Faenza 1973, p. 233; G. Cortesi, Note su S. Apollinare in Veclo in Il Bizantino, Anno V, n. 2, Ravenna 1979, pp. 3-4; G. Cortesi, I principali edifici sacri ravennati in funzione sepolcrale nei secc. V e VI, «CARB», Edizioni Girasole, Ravenna 1982, n. XXIX, pp. 93. 106; E. Cirelli, Ravenna: archeologia di una città, All’insegna del Giglio, Borgo San Lorenzo 2008, pp. 106; 205.

[2] Muratori 1725, Vol I, 2, pp. 538-539.

[3] M. Pierpaoli (traduzione e cura di), Il libro di Agnello Istorico. Le vicende di Ravenna antica fra storia e realtà, Ravenna, 1988, pp. 153; Mauskopf Deliyannis 2006, p. 286.

[4] Pierpaoli 1988, p. 179; Mauskopf Deliyannis 2006, p. 342. Reparato è stato vescovo di Ravenna dal 671 al 677, mentre Grazioso dal 785 al 798; cf. G. Orioli, Cronotassi dei vescovi di Ravenna in Felix Ravenna, Edizioni del Girasole, Ravenna 1985, pp.  323-332.

[5] Fabri 1664, p. 117: l’autore ricorda, citando il testo dell’iscrizione funebre, la sepoltura di Domenico Valeriani, uomo erudito e già rettore di questa chiesa.

[6] Cortesi 1979, p. 4.

[7] Cortesi 1982, p. 106.

[8] Don Paolo Miserocchi resse la parrocchia per 24 anni; cf. P. Uccellini, Dizionario Storico di Ravenna e altri luoghi di Romagna, nella Tipografia del Ven. Seminario Arciv. 1855, p. 303. E’ di un certo interesse vedere unite, nell’opera di ricostruzione di una chiesa dedicata alla memoria di Sant’Apollinare, le figure del Guiccioli e del Soratini entrambi appartenenti all’Ordine Camaldolese che, per secoli, ha custodito la Basilica Classense e la tomba del Santo Patrono.

[9] Per la tela del Barbiani si veda: La Bottega dei Barbiani. Due secoli d’arte a Ravenna a cura di N. Ceroni e G. Viroli, Longo Editore, Ravenna 1994, pp. 146-148 e la scarna bibliografia ivi citata, non essendovi molti studi in merito. Il Ricci, che pur ha il pregio di citare l’opera nella sua Guida di Ravenna, confonde tuttavia Giovanni con il figlio Giovanni Battista, cf. Ricci 1923, p. 92. Il Savini, genericamente, parla di una tela del Barbiani senza specificare oltre, cf. Savini 1996, II, 23. Quello che deve essere considerato a tutti gli effetti l’altare maggiore della chiesa, quello posto di fronte all’ingresso, attualmente non viene più usato per la celebrazione dell’eucarestia. L’altare sul quale abitualmente si celebra è quello posto vicino alla grata che delimita il coro monastico. Alla sinistra dell’altare maggiore è visibile una piccola finestrella che serviva alle suore per ricevere la comunione il cui sportello dipinto presenta il calice sorretto da lievi nubi e, sopra di esso, l’ostia consacrata dalla quale escono luminosi raggi; al centro di essa, è raffigurata la crocifissione.

[10] Questo quadro non può essere attribuito alla commissione delle monache né, come è stato fatto, interpretato alla luce del carisma monastico per il semplice motivo che quest’opera solo in un secondo momento si legherà all’Ordine Francescano, in seguito alla soppressione del loro primitivo monastero di via Strigoni quando alcune monache trovarono ospitalità presso la chiesa di Sant’Apollinare in Veclo, dove quest’opera era già attestata; cf. Beltrami 1783, p. 151.

[11] Per la chiesa si veda: Mazzotti 2003, pp. 254-255; il testo del Savini è molto utile: le piante permettono di visualizzare l’ubicazione sia del monastero sia della chiesa, Savini 1996, III, 27-28. «Nell’imminenza della festa del nostro santo Dottore mi sembra opportuno ricordare questa piccola chiesa che ben poco ha avuto di interessante, ma che è stata l’unico edificio che Ravenna ha innalzato ad onore del suo grande figlio»; quando Mazzotti scrive, – siamo nel 1937 – non era ancora stata costruita la chiesa dedicata a San Pier Damiano, in Via Capodistria 7.

[12] Questa frase, al pari di altre informazioni sulla storia dell’Ordine è stata desunta da un piccolo opuscolo dattiloscritto realizzato dalle monache, intitolato Monastero Clarisse Cappuccine. Per altre brevi notizie si veda: Mazzotti 2003, pp. 254-255; Uccellini 1855, pp. 299,350. Si segnala inoltre: C. Da Granaglione, Suora Chiara Pascoli (1638-1687) fondatrice delle Cappuccine in Ravenna, Monastero delle Cappuccine, Ravenna 1935.

L’articolo è stato pubblicato su RisVeglio Duemila del 28 luglio 2016

 

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