Brevi annotazioni sull’iconografia degli angeli nell’arte ravennate tra V e VI secolo
«Ecco, io mando un angelo davanti a te per custodirti sul cammino e per farti entrare nel luogo che ho preparato. Abbi rispetto della sua presenza, da’ ascolto alla sua voce e non ribellarti a lui […], perché il mio nome è in lui».
Es 23,20-21
Durante il corso del V secolo e per tutto il VI si va componendo e precisando, all’interno della tradizione cristiana, l’iconografia degli angeli, luminose presenze, messaggeri celesti di lieti annunci. Se ancora nel IV secolo la loro rappresentazione sostanzialmente non mostrava particolari segni distintivi, come le ali o le aureole, e la loro riconoscibilità era affidata al contesto narrativo nel quale erano raffigurati, a partire dal V secolo, dunque tardivamente rispetto ad altri temi iconografici già in quell’epoca ampiamente codificati, inizia a formarsi quell’affascinante lessico figurativo che segnerà l’immagine angelica per tutte le epoche a venire.
Uno dei più antichi esempi di messaggeri alati – un’immagine che segna un approdo significativo non solo in ambito ravennate – è costituito dal cosiddetto sarcofago Pignatta, una scultura funeraria datata agli inizi del V secolo, custodito nel Quadrarco di Braccioforte accanto alla Tomba di Dante. In uno dei lati minori di questo sarcofago, così importante per la storia delle immagini, è presente una splendida quanto particolare scena di annunciazione: Maria è raffigurata impegnata nell’arte della tessitura e tra lei e l’angelo dalle maestose ali compare un’ampia cesta dalla quale esce un prezioso filo purpureo.
Questa iconografia trae ispirazione dalla tradizione apocrifa nella quale si racconta di Maria, che al sopraggiungere dell’angelo Gabriele, era intenta a tessere il velo del Tempio di Gerusalemme un gesto, questo, carico di presagi che unisce il tempo della nascita di Cristo a quello della sua passione. Secondo la tradizione, infatti, alla morte del Signore Gesù proprio quel velo si squarcerà in due, da cima a fondo. Nel vangelo apocrifo dello pseudo Matteo, a proposito del tempo dell’annunciazione a Maria, leggiamo che «il terzo giorno, mentre con le sue dita lavorava la porpora, entrò da lei un giovane la cui bellezza era inesprimibile. Vedendolo, Maria ebbe paura e tremò. Ma egli le disse: Ave Maria, piena di grazia, il Signore è con te, benedetta tu tra le donne e benedetto il frutto del tuo ventre. All’udire ciò, tremò ed ebbe paura. Allora l’angelo del Signore proseguì: Non temere, o Maria. Hai trovato grazia presso Dio: ecco che concepirai nell’utero e genererai un re che non soltanto riempie la terra, ma anche il cielo, e regna nei secoli dei secoli».
Anche nella Cattedra d’avorio di Massimiano, superba opera datata alla metà del VI secolo custodita nel Museo Arcivescovile, è presente questa scena di annunciazione ispirata alla tradizione apocrifa: essa compare in una formella che dà avvio ad un ciclo narrativo raffigurato sulla fronte del trono eburneo, incentrato sui vangeli dell’infanzia e caratterizzato dalla presenza degli angeli. Se la figura angelica compare come messaggero celeste nel tempo benedetto dell’incarnazione del Verbo, nella formella della prova delle acque amare l’angelo si manifesta come potenza protettrice e rivelatrice dei disegni divini. Tra le formelle della Cattedra, proprio questa scena raffigurante la prova delle acque amare merita più attenzione di altre perché ispirata esclusivamente alla leggenda apocrifa, non trovando riscontro nei vangeli canonici. Secondo queste antiche tradizioni Maria era una vergine consacrata al tempio e al diffondersi della notizia della sua gravidanza lei e Giuseppe furono richiamati dal sommo sacerdote: «Disse il pontefice Abiatar: “Viva il Signore! Ora vi farò bere l’acqua della prova del Signore affinché quando bevete si manifesti il vostro peccato”. Diede dunque ordine e portarono dal santuario un’idria data da Mosè ai figli di Israele piena dell’acqua di cui si parla nella Legge del Signore. Questa è l’acqua che denuncia i peccatori: a chi la assaggia dopo aver mentito, Dio gli farà apparire un segno sulla faccia». Il testo racconta che Maria si avvicinò all’altare, prese sicura l’acqua della prova e nel momento in cui la bevve «un improvviso splendore apparve sulla sua faccia, e il suo volto fu così trasformato che i figli di Israele non potevano guardarla. Allora tutti i principi e il popolo, vedendo la sua bellezza, restarono ammirati». In questa formella l’angelo emerge in tutta la sua potenza a protezione di Giuseppe e della Vergine Maria nel cui grembo è gelosamente custodito il mistero della Vita. Nella Cattedra ravennate – capolavoro assoluto dell’arte bizantina, dove maestria artistica e sapienza teologica risplendono inscindibilmente congiunte – la presenza angelica, quale segno di protezione celeste, emerge nuovamente nella formella che riunisce due tempi della narrazione evangelica: il sogno di Giuseppe, il primo tra le sue visioni, e l’andata a Betlemme. L’evangelista Matteo è l’unico a raccontare i sogni di Giuseppe – apparizioni insperate della provvidenza – nei quali il messaggero di Dio placa i suoi umani dubbi e dolcemente lo rassicura, lo guida nel cammino e lo appassiona all’imperscrutabile disegno divino. Nella parte alta della formella Giuseppe è rappresentato disteso sul suo giaciglio, profondamente assorto – questa è la lunga notte del dubbio – mentre riceve, come in una mistica visione, l’annuncio angelico: «Giuseppe, figlio di Davide, non temere di prendere con te Maria, tua sposa. Infatti il bambino che è generato in lei viene dallo Spirito Santo; ella darà alla luce un figlio e tu lo chiamerai Gesù» […]. Quando si destò dal sonno, Giuseppe fece come gli aveva ordinato l’angelo del Signore e prese con sé la sua sposa; senza che egli la conoscesse, ella diede alla luce un figlio ed egli lo chiamò Gesù». Non ci sono altri passi del vangelo in cui emerga nella sua umile bellezza la figura di Giuseppe come in questi due capitoli del testo di Matteo eppure, mai, si ode la sua voce; solo le parole dell’angelo risuonano lungo le pagine evangeliche e nel cuore dell’uomo giusto, potenti e vigorose, pronte a fugare ogni dubbio. L’andata a Betlemme occupa la parte inferiore di questa preziosa formella, una scena nella quale la presenza angelica, guida inviata da Dio perché i passi di Giuseppe e della Vergine percorrano terre sicure, è presenza benevola e famigliare. L’ultima scena sul fronte della Cattedra, posta a chiusura del ciclo dell’infanzia del Signore, presenta l’adorazione dei Magi. Essa doveva essere articolata su due formelle, delle quali sopravvive solo la prima, dove sono raffigurati la Vergine Maria con il Bambino e Giuseppe alle loro spalle, mentre un angelo indica ai sapienti scrutatori del cielo venuti dall’Oriente il mistero del Dio fatto uomo.
Sul retro della Cattedra si dipana la vita pubblica del Salvatore: il battesimo nel fiume Giordano e l’ingresso solenne a Gerusalemme segnano il tempo dell’annuncio del vangelo nel quale il Cristo si manifesta come Messia potente in parole ed opere. Nella scena del battesimo due angeli sono i testimoni privilegiati del mistero della discesa nell’acqua del Figlio di Dio, in ascolto della parola di predilezione del Padre che risuona dal cielo.
La presenza del messaggero celeste ritorna anche in una delle dieci formelle che decorano i fianchi del trono, dove è narrata la vicenda di Giuseppe l’ebreo, una storia che è stata riletta ed interpretata già dai teologi dell’epoca antica, come prefigurazione del mistero di passione, morte e resurrezione di Cristo. Nella formella del sogno del faraone compare l’angelo di Dio, perché il sogno è un luogo teologico, nel quale Dio si rende presente lungo la storia degli uomini.
In un altro straordinario avorio, il cosiddetto Dittico di Murano – opera datata alla prima metà del VI secolo e custodita nel Museo Nazionale di Ravenna – la figura angelica ritorna come presenza regale e di conforto. Sulla fronte della copertura di questo evangeliario i messaggeri celesti sono posti come a custodia del prezioso codice che offre la parola di salvezza. Nella parte superiore gli angeli compaiono come immagini trionfali sia ai lati della formella, raffigurati in abiti preziosi e reggenti un baculo crucisegnato e un globo, sia al centro di essa, solenni e maestosi, mentre reggono il segno della croce vittoriosa di Cristo. L’angelo si manifesta anche come amorevole protezione divina verso chi spera nel Signore e sollecito messaggero nelle scene veterotestamentarie dei tre giovani nella fornace e del profeta Giona, immagini che affondano le loro origini nella prima iconografia cristiana.
Nella volta della Cappella arcivescovile quattro angeli sorreggono l’aureo monogramma di Cristo, Iesus Xristos, mentre nelle vele, su fondo oro, sono i simboli dei quattro evangelisti che reggono il prezioso codice del vangelo.
Nella Basilica di Sant’Apollinare Nuovo gli angeli appartengono ai mosaici di epoca teodoriciana: li ammiriamo nella celeste schiera che incornicia solennemente sia la figura di Cristo assiso sul trono sia quella della Vergine e in due tra le ventisei scene cristologiche poste nel terzo registro della navata centrale.
Tra i riquadri della parete sinistra, splendida narrazione evangelica affidata alle immagini, la decima scena presenta una singolare figura di giudizio, un’iconografia originalissima che prende vita dal racconto dell’evangelista Matteo. Il Figlio dell’uomo siede su una roccia al centro di due angeli vibranti nel colore rosso e azzurro, tinte che si riflettono nell’incarnato e nelle vesti. Luminoso come il fuoco è l’angelo alla sua destra seguito da pecore, simbolo dei salvati – il rosso rimanda alla potenza della luce, al cielo empireo, il più alto dei cieli, spazio ardente, bruciante della presenza divina -, mentre interamente azzurro – il colore della notte e delle tenebre – è l’angelo alla sua sinistra, guida delle capre, simbolo dei dannati.
Anche in una formella della parete destra, le cui scene scandiscono il tempo decisivo della passione, morte e risurrezione di Cristo, la presenza angelica ritorna nella figura del messaggero che annuncia la vittoria di Gesù sulla morte. L’undicesimo riquadro si presenta come un’immagine tanto sintetica quanto eloquente che, dopo le scene di passione, entra potentemente nel vivo delle iconografie pasquali. Quest’immagine, coerentemente con i testi evangelici e la riflessione teologica, sottrae allo sguardo umano la potenza del corpo glorioso nell’attimo in cui risorge da morte e pone l’attenzione sulla tomba vuota. Al centro della composizione è, infatti, il sepolcro del Signore la cui lastra di chiusura posta di traverso diventa segno decisivo dell’assenza, da questo luogo di morte, del corpo del Risorto. Alla sinistra del sepolcro è posto un angelo seduto su una roccia, giovane, imberbe, vestito con una candida tunica manicata e pallio; stringe nella mano sinistra un baculo aureo mentre la destra è alzata nel gesto della parola:
«Voi non abbiate paura! So che cercate Gesù, il crocifisso. Non è qui. È risorto».
Sulla sinistra della composizione, coerentemente con il testo del vangelo di Matteo, sono le due donne destinatarie dell’ineffabile parola angelica.
Nella Basilica di Sant’Apollinare in Classe gli arcangeli Michele e Gabriele compaiono alla base dell’arco trionfale, rivestiti di abiti imperiali e recanti il labaro sul quale risplendono le parole del trisagion, tre volte santo.
Nella Basilica di San Vitale le immagini dei messaggeri divini si offrono con un’intensità e magnificenza maggiore rispetto agli altri monumenti sin qui presi in esame, ai quali, per una disamina più ampia, andrebbero affiancate anche quelle iconografie perdute o mutile come ad esempio la decorazione musiva di Sant’Agata o quella straordinaria di San Michele in Africisco dove la schiera celeste emerge in tutta la sua forza.
Nella Basilica giustinianea la presenza angelica anima le architetture del presbiterio rendendolo spazio immenso, vibrante della presenza di Dio. Nel catino absidale gli angeli che precedono le figure di San Vitale e del vescovo Ecclesio, sono la corte celeste di Cristo, raffigurato giovane e imberbe, assiso su un globo come su un trono di gloria.
Angeli in volo, le cui mani reggono un clipeo crucisegnato, compaiono sopra le lunette dei sacrifici veterotestamentari, mentre due angeli al centro dell’arco trionfale elevano un medaglione luminoso sul quale è il monogramma di Cristo nel cui centro risplende la lettera alfa.
Nella volta della Basilica dedicata al Santo martire Vitale, la composizione si fa più che mai armoniosa: nelle vele, così ricche di decorazioni su fondo alternativamente verde e oro e dunque evocative di scenari paradisiaci, emergono quattro angeli biancovestiti che reggono una preziosa ghirlanda adornata di foglie e di frutti nella quale risplende, al centro di un cosmo stellato, il mistico Agnello.