Il profeta Daniele nel portale del refettorio di Classe

Sul portale ligneo del refettorio del monastero camaldolese di Classe sono due splendide formelle incentrate sul racconto biblico di Daniele nella fossa dei leoni.
Daniele nella fossa dei leoni
Daniele nella fossa dei leoni, Portale ligneo dell'ex refettorio monastico, Biblioteca Classense di Ravenna

Note di iconografia

Sul portale ligneo del refettorio del monastero camaldolese di Classe, opera della fine del XVI secolo di Giovanni Vincenzo e Mario Peruzzi, sono incastonate due splendide formelle incentrate sul racconto biblico di Daniele gettato nella fossa dei leoni e del suo straordinario incontro con il profeta Abacuc[1].

Il libro di Daniele, fin dai primi secoli del cristianesimo, è stato oggetto di numerose interpretazioni e l’iconografia paleocristiana più volte ha attinto alle storie in esso contenute, dall’episodio dei tre giovani nella fornace a quello dell’innocente Susanna, con una particolare predilezione per la vicenda di Daniele nella fossa di morte, episodio riportato, seppur con accenti diversi, sia al capitolo sei sia al capitolo quattordici[2]. In questo quattordicesimo capitolo si amplia la narrazione incentrata su Daniele tra i leoni grazie alla figura del profeta Abacuc che, inviato da Dio, sfama il profeta chiuso nella fossa: 

«Si trovava allora in Giudea il profeta Abacuc, il quale aveva fatto una minestra e aveva spezzettato il pane in un recipiente e ora andava a portarli nel campo ai mietitori. L’angelo del Signore gli disse: «Porta questo cibo a Daniele a Babilonia nella fossa dei leoni». Ma Abacuc rispose: «Signore, Babilonia non l’ho mai vista e la fossa non la conosco». Allora l’angelo del Signore lo prese per la cima della testa e sollevandolo per i capelli lo portò a Babilonia, sull’orlo della fossa dei leoni, con l’impeto del suo soffio. Gridò Abacuc: «Daniele, Daniele, prendi il cibo che Dio ti ha mandato». Daniele esclamò: «Dio, ti sei ricordato di me e non hai abbandonato coloro che ti amano». Alzatosi, Daniele si mise a mangiare. L’angelo di Dio riportò subito Abacuc nella sua terra»[3].

A questo secondo racconto, si ispirano le formelle classensi. Entrambe sono ambientate all’interno della fossa qui rappresentata come una grotta angusta nella quale si aggirano vari leoni; due sono posti accanto ad Abacuc, tre circondano Daniele. 

Protagonista della formella sinistra è Abacuc, qui raffigurato con una folta e lunga barba, mentre viene condotto dall’angelo di Dio nella fossa di morte alla quale era stato condannato Daniele (Fig. 1). L’angelo posto alle sue spalle è rappresentato in volo mentre afferra per i capelli il profeta, coerentemente a quanto narrato nel testo biblico.  Abacuc è ritratto nel momento in cui è appena arrivato; se il piede destro poggia con decisione a terra, l’altro ha il tallone ancora sollevato. Regge un canestro intrecciato nel quale è il cibo che aveva preparato per i mietitori e che ora, per ordine divino, porta a Daniele. Nella formella destra Daniele compare in una posa inconsueta se paragonata alla tradizionale iconografia paleocristiana nella quale è costantemente rappresentato come orante, in piedi, con le braccia alzate e le palme delle mani rivolte al cielo, in un atteggiamento di totale fiducia in Dio (Fig. 2)[4]. Qui è nudo, giusto un panno gli cinge i fianchi, siede su una roccia e lo sguardo, al pari della sua mano destra, è rivolto verso l’alto, idealmente teso verso Abacuc venuto a recargli il conforto divino. Sopra di lui è anche un piccolo serpente, insinuato tra le rocce, che pare alludere a quel drago venerato dai Babilonesi e ucciso dallo stesso Daniele. È per la distruzione di Bel e l’uccisione del Drago che il re, per salvarsi la vita, lo ha condannato alla fossa dei leoni: 

«Quando i Babilonesi lo seppero, ne furono molto indignati e insorsero contro il re, dicendo: «Il re è diventato giudeo: ha distrutto Bel, ha ucciso il drago, ha messo a morte i sacerdoti». Andarono da lui dicendo: «Consegnaci Daniele, altrimenti uccidiamo te e la tua famiglia!». Quando il re vide che lo assalivano con violenza, costretto dalla necessità consegnò loro Daniele»[5].

Daniele con la mano sinistra sfiora un docile leone accucciato ai suoi piedi, mentre gli altri due gli si accostano con totale mansuetudine e gli sfiorano le gambe. Ancor più che nella precedente formella, i leoni si mostrano miti, nonostante il digiuno forzato al quale erano stati sottoposti[6], un dettaglio che, lungi dall’essere una scelta meramente compositiva dettata da criteri estetici, fa emergere un significato profondo, allusivo alla prefigurazione dei tempi messianici inaugurati da Cristo nei quali l’ordine voluto da Dio sulla creazione veniva ristabilito. Più volte i Padri della Chiesa avevano così commentato il fatto che i famelici leoni non avevano sfiorato Daniele, un’interpretazione, questa, che non poteva certo sfuggire ai colti camaldolesi. Al proposito scrive Ippolito nel suo commento al libro di Daniele: «Lorsque Darius eut entendu la vox de Daniel, il fut frappé de stupeur et détonnement. Il fit alors rouler la pierre et vit Daniel assis au milieu del lions: il caressait de la main leur criniere. Le roi appela alors toute sa cous et leur montra le merveilleux spetacle: des bêtes fèroces apprivoisèes par un homme et se rècheauffant à ses mains»[7] e ancora Giovanni Crisostomo: «Dans la même Babylone, un jour, on jeta Daniel dns la fosse aux lions; eh bien, les lions n’osaient pas le toucher. Car ils voyaient briller en lui l’antique image royale, ils regardaient ces admirables sceaux qu’ils voyaient sur Adam avant son pèchè. En effet, c’est avec la mêmesoumission que les bêtes vinrent vers Adam et recurrent alors leurs noms»[8]

L’episodio di Daniele nella fossa dei leoni è stato interpretato in diversi modi, a seconda anche dei differenti contesti. Al tempo delle persecuzioni la figura di Daniele, l’uomo fedele al suo Dio e ingiustamente perseguitato, è stata interpretata come modello della fede cristiana forte nel resistere alle potenze del male, grazie alla preghiera[9]. Clemente Romano, ad esempio, nella lettera ai Corinti, indica la sua figura e quella dei tre giovani nella fornace come prova di gloriosa sopportazione, quella stessa a cui è invitata la comunità cristiana[10].

I Padri della Chiesa e gli autori cristiani dei primi secoli riconoscono in Daniele la prefigurazione del trionfo di Cristo sulla morte. Al proposito Afraate, nelle Esposizioni, esalta questa lettura mostrando, attraverso un confronto serrato tra la vicenda del profeta e quella di Cristo, come in Daniele fosse già annunciato il Mistero pasquale: 

«Daniele fu perseguitato e anche Gesù fu perseguitato […]. Gettarono Daniele nella fossa dei leoni, ma si salvò e risalì illeso; fecero scendere Gesù nella fossa dei morti, ma risalì e la morte non ha più potere su di lui. Riguardo a Daniele ritenevano che, dal momento che era caduto nella fossa, non sarebbe risalito; riguardo a Gesù dissero: Da dove è caduto non potrà rialzarsi. Davanti a Daniele furono chiuse le bocche dei leoni famelici e devastatori; davanti a Gesù fu chiusa la bocca della morte famelica, che devasta tutto ciò che ha forma. La fossa di Daniele sigillarono e custodirono con vigilanza; il sepolcro di Gesù custodirono con vigilanza, come dissero: Comanda che vigilino il sepolcro. Quando Daniele risalì furono svergognati i suoi calunniatori; quando Gesù risorse furono svergognati tutti i suoi crocifissori»[11].

Più autori hanno interpretato il cibo portato dal profeta Abacuc come prefigurazione eucaristica al pari, ad esempio, dell’episodio biblico della manna nel deserto: il pane che scende dal cielo è il Figlio di Dio, pane degli angeli. Scrive Ambrogio nel commento al Salmo 36: 

«Vera discendenza è stato Daniele, a cui nella fossa dei leoni il profeta Abacuc faceva pervenire dal cielo canestri pieni del cibo destinato ai mietitori. Pane degli angeli dunque è quello che l’uomo ha mangiato (…). Questo ristoro è spirituale; questo ristoro è il riposo dello spirito interiore (…). Dunque, né di tal pane né d’acqua di ristoro è privo il giusto, perché lo Spirito Santo è il suo riposo e il suo ristoro»[12]

Tra i vari commenti scritti per questo brano veterotestamentario inerenti al filone interpretativo eucaristico, soprattutto in considerazione del contesto nel quale si trovano le formelle classensi  la porta di un refettorio monastico -, non deve essere tralasciato quanto scrive Prudenzio nel IV degli Inni quotidiani composto per essere recitato a conclusione del pasto dove è detto chiaramente che solo Dio è il «vero nutrimento e il gusto dell’anima», un componimento di lode nel quale la figura di Daniele emerge in modo preponderante:

«Tu ci sostieni con un doppio desco, o Padre, ristorando e rinvigorendo con tutti e due i cibi, il corpo e l’anima. Così un tempo la tua celebrata potenza rifocillò un uomo nella fossa dei ruggenti leoni con le vivande discese dall’alto (…). E mentre [Daniele], sempre prigioniero e affamato, tendeva le mani al cielo e pregava il Dio che aveva conosciuto, un messaggero [da Lui] inviato volava svelto sulla terra, con il vento in poppa, a portar da mangiare al servo sperimentato. E questi vede da lontano il pasto pronto, che il buon profeta Abacuc aveva preparato con cura contadina per i mietitori. [L’angelo] lo afferra per i capelli così com’era, con i canestri pieni, lo innalza e lo trasporta in volo. Poi Abacuc con la sua sporta scende pian piano nella fossa dei leoni, o offre [a Daniele] le vivande che portava con sé: «Mangia lieto e contento questo cibo», dice, «gusta quello che il Padre altissimo e l’angelo di Cristo mandato a te, nell’emergenza in cui ti trovi». E dopo aver mangiato Daniele, fortificato dal cibo, alzò la faccia al cielo, disse: «Amen», e cantò l’alleluia»[13]

Il monaco, dunque, in Daniele era invitato a trovare un modello di virtù cristiana e di fiduciosa attesa nella provvidenza divina: se il Dio di Israele aveva nutrito il suo profeta nella fossa di tenebra, tanto più avrebbe fatto ora, nel corpo offerto del suo figlio Gesù. 

Se dunque il cibo di cui si nutre Daniele non solo è terreno, ma innanzitutto spirituale, la sua iconografia doveva apparire alla committenza camaldolese la scelta migliore per ornare le porte del refettorio, uno spazio essenziale nella vita del monastero, un luogo nel quale oltre a nutrire il corpo si nutriva anche lo spirito, in continuità con la mensa eucaristica, nel silenzioso ascolto dei testi spirituali che venivano proclamati durante i pasti e nella comunione fraterna[14].

Anche l’iscrizione di chiara memoria virgiliana posta sull’architrave del portale – sp[irit]us intus alit -, richiama alla potenza dello Spirito, ora cristianamente inteso come Spirito Santo, salutare fonte di nutrimento per l’anima[15].  Se questa iscrizione accoglieva chi entrava nel refettorio, chi da esso usciva, rinfrancato nel corpo e nello spirito, veniva interpellato dall’iscrizione posta sulla sommità del portale d’ingresso all’antirefettorio: gustato sp[irit]u desipit o[mn]is caro[16].

Tutto l’apparato decorativo e iconografico di questo spazio monastico dell’antirefettorio mirava dunque ad offrire al monaco un chiaro, quanto unitario, messaggio ascetico volto a ribadire il primato della dimensione spirituale su quella corporale e a preparare alla grande visione delle nozze di Cana[17] magistralmente dipinte nella parete di fondo del refettorio, capolavoro di Luca Longhi; come l’episodio di Daniele era interpretato dalla tradizione in chiave eucaristica, così era per il passo giovanneo dello sposalizio di Galilea, prefigurazione dell’ora della croce e delle mistiche nozze tra il Cristo sposo e la Chiesa, sua sposa[18].

Al monaco, dunque, che entrava nel refettorio erano indicati due tempi della storia della salvezza: varcando la soglia era invitato a contemplare, in Daniele, il tempo antico della prefigurazione, mentre nello sposalizio di Cana, alla cui tavola era commensale lo stesso Cristo, veniva annunciato il tempo delle nozze dell’Agnello. E la comunità monastica, misticamente, era invitata a sedere alla mensa nuziale, in attesa del compimento, tra il già e il non ancora. 

Giovanni Gardini


[1] Il presente contributo si concentra sugli aspetti iconografici delle due formelle a tema biblico; per quanto concerne la realizzazione del portale, dalla committenza alle maestranze coinvolte, si rimanda al prezioso saggio di Daniela Poggiali, L’antirefettorio: alcune considerazioni sull’apparato decorativo, presente in questi stessi atti del convegno. 

[2] Il libro di Daniele per ben due volte presenta la figura dell’omonimo profeta gettato nella fossa dei leoni: Dn 6, 17-25 e Dn 14, 31-42; è l’ultimo racconto, in chiusura del libro, che presenta l’incontro tra Daniele e Abacuc. 

[3] Dn 14, 33-39. 

[4] Per la genesi dell’iconografia di Daniele si veda: Minasi (2000), 162-164; Dresken-Weiland (2012), 187-196; Dulaey (2004), 128-135; Santagata (2006), 1332-1334. 

[5] Dn 14, 28-30. 

[6] Dn 14, 32. 

[7] Hyppolite 1947, III, XXIX, 162. 

[8] Jean Chrisostome 1998, V, 265. 

[9] Va notato che già nella letteratura veterotestamentaria la figura di Daniele era letta come quella dell’uomo salvato per la sua innocenza: «Daniele nella sua innocenza fu sottratto alle fauci dei leoni», 1 Mac 2, 60. 

[10] Clemente 1978, 79. 

[11] Afraate 2012, Vol 2, 419. 

[12] Ambrogio 1980,  225-227. 

[13] Prudenzio 2009, 82-85. 

[14] Durante gli ultimi restauri è stata rinvenuta la scritta Silentium nella parete di fondo del refettorio.

[15] Virgilio 1979, vol. III, libro VI, 114-115, v. 726.

[16] Questo portale, decorato solo nella parte interna, è visibile in primis da chi esce dal refettorio. 

[17] Gv 2, 1-12. 

[18] Non di rado, questo passo del vangelo di Giovanni, veniva dunque rappresentato nei refettori monastici, basti qui citare a titolo esemplificativo l’opera del Veronese per il refettorio benedettino del Monastero di San Giorgio Maggiore o quella ad esso ispirata, per rimanere in ambito ravennate, del refettorio monastico del Monastero di San Vitale retto dai padri Cassinesi, opera di Giambattista Bissone. Quest’ultima opera non è al momento visibile per via dell’allestimento dagli affreschi di Santa Chiara; per l’opera di Bissone si veda l’accenno fatto nel seguente saggio: Ranaldi 2015, 99-101. Un altro tema ricorrente nei refettori monastici è, evidentemente, quello dell’ultima cena. Una scelta iconografica interessante è quella del refettorio del Monastero di Camaldoli. Al Pomarancio fu commissionata una grande opera, che fu realizzata in loco, raffigurante Cristo vincitore sulle tentazioni e servito dagli angeli (cf. Mt 4, 1-11).  

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